A Soverato si ripete la magia dei resti romani emersi dalle acque

di Roberto De Santo
Dopo ogni mareggiata quando il mare si ritrae a Soverato si rinnova una magia. Si tratta dei resti di un’antica cava di macine che emergono dalle acque dove giacciono da secoli. Una struttura che si estende per circa 2 chilometri e che risalirebbe, secondo gli studiosi, almeno al periodo romano anche se evidenze storiche retrodaterebbero il manufatto ad epoca precedente.
Ed anche nei giorni scorsi questo fenomeno si è ripetuto nel tratto di costa che bagna località San Nicola di Soverato regalando lo spettacolo.
La storia del luogo
Resti che parlano di una storia antica quando, stando a ricerche portate avanti recentemente, quest’area faceva parte di una zona di sfruttamento di beach rock per realizzare manufatti per diversi usi. Tra cui macine romane, ma anche blocchi a forma di parallelepipedo che sarebbe stati utilizzati per realizzare opere architettoniche.

In questa zona, inoltre nei secoli, sarebbe sorto un vero e proprio porto ad uso commerciale – per il trasferimento di questi manufatti – ma anche militare. A suggerire questa destinazione il toponimo con il quale fin dall’antichità era denominata la zona: “Paliporto”. Un termine riscontrabile nel foglio 30 dell’Atlante del Regno di Napoli del 1788, redatto a cura di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni.


Una denominazione che, con qualche aggiustamento, si rinviene anche nella carta aggiornata al 1847 a cura dello Stato maggiore austriaco nel quale viene definita “Patiporto”. Termini che indurrebbero a ritenere questa zona come area in cui era presente un antico approdo, poi scomparso. Area limitrofa ad un centro abitato le cui testimonianze sarebbero riscontrabili nella presenza poco distante di una piccola necropoli di epoca – stando ad alcune ricerche – pre-ellenica.

Si tratterebbero di elementi sepolcrali scavati direttamente nella roccia a forma di grotticelle e che attualmente sovrastano la linea ferroviaria posta a sud della zona. Elementi che spingono a far comprendere come l’intera area facesse parte di un complesso sito abitato fin dall’antichità più remota. E che fosse poi stato definitivamente abbandonato dopo il sisma del 1783 quando proprio a causa delle devastazioni conseguenti al quel terremoto la Soverato Vecchia fu completamente distrutta. A quella data gli storici fanno anche terminare l’attività estrattiva della cava sommersa di San Nicola.
Le rilevanze del sito
A descrivere dettagliatamente il sito una relazione pubblicata ne “Il patrimonio culturale sommerso” che ha raccolto gli atti del V Convegno nazionale di archeologia subacquea che si svolse ad Udine nel settembre del 2016. Nel report “La cava sommersa di Soverato”, curato da Alfredo Ruga, Francesco Laratta e Florinda Tortorici, emerge che il sito non sarebbe una horrea (deposito materiale di romana memoria) ma una vera e propria cava dedicata all’attività estrattiva e alla lavorazione del materiale. «Le operazioni svolte a partire dal 2003 – scrivono nella relazione – hanno evidenziato sulla spiaggia, come sul fondale, lo sfruttamento della fascia di beach rock per la realizzazione di vari manufatti lapidei; fra questi, la maggior parte è costituita da macine, unitamente a una minor quantità di blocchi, per lo più a forma di parallelepipedo, atti a essere impiegati come elementi architettonici».

Ed entrano anche nel dettaglio, «ricerche condotte dalla Soprintendenza calabrese, con l’ausilio dell’equipe di Stefano Mariottini, sono stati individuati e posizionati 33 elementi lapidei, di cui 31 macine e 2 in forma di blocco non meglio identificato. Solo degli elementi impiegati come macine è stato possibile ricostruire una certa casistica con caratteristiche comuni: esse presentano un diametro medio di 120 cm (con un minimo di 65 cm e un massimo di 140), uno spessore medio di 25 cm e un foro centrale di 20 cm di diametro». Dunque elementi certi che farebbero propendere «ad una fabbrica che fa riferimento a una produzione pressoché standardizzata legata, se non proprio a un unico committente, a soddisfare una specifica esigenza tipica del territorio e dei suoi, vari e ipotetici committenti, focalizzata proprio alla produzione di macine».


I ricercatori inoltre propendono per l’ipotesi che qui insistesse anche un porto «avvalorata – scrivono – proprio dal fatto che la porzione centrale della zona si presenta sterile di manufatti, ma altresì caratterizzata dalla presenza di due bitte d’ormeggio, poste in asse perpendicolare rispetto alla linea di costa e a differenti quote». «Procedendo da est verso ovest – specificano – ne viene individuata una prima a c. 4 m di profondità, realizzata in beach rock in forma tronco-conica con al centro un foro di 10 cm di diametro e profondo c. 25 cm, atto ad ospitare un palo a cui fissare la cima d’ormeggio. Una seconda bitta, posta a 7 m di fondo realizzata con la classica forma a “fungo”, adagiata sul fianco e franata probabilmente proprio a causa della stessa natura del banco roccioso».

«Alla presenza delle due bitte va associato il dato – aggiungono – che queste sono collocate proprio in corrispondenza del punto di massima penetrazione del mare sulla linea di costa, dove si accentua la piccola baia naturale, che risulta statisticamente la meno esposta alle azioni meteo-marine contrarie all’avvicinamento alla linea di costa e al riparo, sia questo in ormeggio che con eventuale spiaggiamento». Da qui la conclusione che nella baia di Soverato in quel che viene definita ancora Paliporto sorgesse il primo scalo dell’antichità dell’importante centro commerciale romano. (Foto: Carmelo Panella)
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