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Bova, la storia e la bellezza a cui fare ritorno

Bova, la storia e la bellezza a cui fare ritorno

C’è sempre il mare all’orizzonte nell’idea di un viaggio in Calabria. Anche quando si giunge nelle parti più interne, c’è quasi sempre un punto, più in alto, dal quale poterlo scorgere. E poi le valli, alcune dolcissime, altre molto impervie. Così, nell’estremo sud della regione jonica, terra dove cresce l’albero miracoloso del Bergamotto, a pochi chilometri da Reggio, dove sorgono borghi antichi, alcuni dei quali abbandonati da tempo. Si chiamano Bova, Roghudi, Pentedattilo, Palizzi, Condofuri con la sua frazione Gallicianò, Bagaladi. Sono solo alcuni dei paesi dell’Area grecanica, o Bovesìa, dove i segni di un passato antichissimo resistono nella lingua, il greco antico che si è mescolato alla lingua indigena definendo il grecanico, l’idioma unico parlato ancora dagli anziani.

Tra il mare, le fiumare e i contrafforti dell’Aspromonte, la strada che porta verso Bova è fatta di curve sinuose che seguono il profilo dell’alto colle che, tra la tarda primavera e l’estate, è un trionfo di fichi d’India e ciuffi di ginestra. Quando il paesino appare, dalle ultime curve, si ha un po’ l’impressione di una sospensione del tempo. Ci si ferma a guardarla, Bova, a segnarne a mente i contorni, e poi si procede. È considerata la capitale della Calabria Greca e, giustamente, rientra fra i Borghi più belli d’Italia.

Qui, sulla rocca sovrastante, una leggendaria regina greca di nome Oichista avrebbe lasciato l’impronta del suo piede sulla rocca, come a segnare per sempre il suo legame con queste terre. Certa è invece l’origine di Bova, confermata da ritrovamenti archeologici, in particolare nelle vicinanze del Castello Normanno, che attestano la presenza umana fin dal periodo Neolitico. Il borgo fu poi probabilmente una fortezza magno-greca, strategicamente collocata sul confine tra le poleis di Reggio e Locri, e divenne rifugio per gli abitanti della costa durante le incursioni barbariche del VI secolo d.C..

Chi arriva per la prima volta qui, potrebbe restare spiazzato per la vista, all’ingresso del paese, di una bella locomotiva a vapore delle Ferrovie dello Stato, una Ansaldo Breda modello 740.054 in servizio dal 1911, nel bel mezzo di Piazza Ferrovieri d’Italia. Perché mai una macchina così imponente è finita a circa 900m di altitudine e in un posto, soprattutto, dove la ferrovia non è mai esistita? La locomotiva è qui dal 1987. Il suo trasporto fu veramente un’impresa straordinaria: sessanta tonnellate di ferro superarono curve e pendenze importanti, dalla marina al paese, per raggiungere il loro posto d’onore su iniziativa del sindaco allora in carica Pasquale Foti. In un borgo mai toccato dal trasporto ferroviario, la locomotiva voleva rappresentare un omaggio al lavoro dei bovesi impiegati nelle ferrovie o, secondo un’altra interpretazione, un monumento all’emigrazione che determinò lo spopolamento. A conti fatti, fu un omaggio estremamente oneroso che probabilmente mirava solo a creare un’attrazione per il paese, tanto è vero che il significato di quella installazione non è mai stato univoco. Comunque sia andata, forse nessuno dei circa 400 abitanti di Bova la rimanderebbe indietro. Come si dice, fa parte della famiglia.

Poi, però, c’è tutto il resto. Un centro storico con le case in pietra, le sue chiese, le vestigia del castello imponente sulla sommità, la Torre Parcopia ancora oggi esistente. All’ingresso di Bova, il Museo della Lingua Greco-Calabra “Gerhard Rohlfs” aperto dal 2016. Qui si può conoscere meglio la lingua e la sua storia attraverso una curata esposizione delle tesi linguistiche di Gerhard Rohlfs che, dal 1924, sostenne l’origine magnogreca della parlata che ancora vive nei borghi ellenofoni di Bova, Gallicianò e Roghudi. Foto e documenti storici e, con l’ausilio di installazioni audio-visive, la possibilità di ascoltare la lingua che risale ai tempi di Omero. Oltre agli aspetti della storia linguistica, qui c’è tutta la vita di Gerhard Rohlfs, anche i documenti sulle origini magnogreche della lingua greco-calabra, che sollevarono polemiche da parte dei linguisti italiani dell’epoca.

Quasi del tutto dimenticata, e poi inserita all’interno della Sezione urbana del Museo Gerhard Rohlfs, anche la Giudecca, un quartiere di Bova che fu abitato, tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI, da una piccola comunità ebraica. È stata valorizzata dall’installazione di arte contemporanea di “ceramiche parlanti” dell’artista Antonio Puija Veneziano.

A pochi metri, c’è anche il Museo di Paleontologia e Scienze naturali dell’Aspromonte con una collezione di circa 15mila esemplari fossili che abbracciano un periodo che va da 100.000 a 120.000 anni fa. E poi, tra i vicoli ben curati, il Sentiero della Civiltà Contadina, organizzato grazie alla donazione, da parte di un emigrato bovese, dei cimeli della sua vita agropastorale d’infanzia.

Bova ha mostrato in tempi non sospetti una vitalità straordinaria grazie all’iniziativa della Cooperativa San Leo che, dagli anni ’90, ha trasformato la bellezza e le tradizioni del luogo in una forma di turismo consapevole. Con un modello di ospitalità diffusa, la cooperativa accoglie i viaggiatori in case antiche restaurate, e li coinvolge in percorsi naturalistici che si snodano tra i sentieri dell’Aspromonte e attività che promuovono il rispetto per l’ambiente.

Questo, ha dato nel tempo nuova vita al borgo, ed è diventato un esempio per altri piccoli centri, dimostrando che anche i luoghi in fase di spopolamento possono trasformarsi in punti di riferimento per il turismo sostenibile. Bova è anche una delle porte del Parco Nazionale dell’Aspromonte, una delle aree protette più sorprendenti della Calabria, così come la valle della fiumara Amendolea e i suoi scenari di assoluta bellezza e natura incontaminata.

Le attività di ristoro gastronomico garantiscono sempre una cucina genuina e sostanziosa, fatta dei piatti della tradizione contadina e pastorale. Tra le specialità molto ricercate la lestopitta, che ricorda la pita greca, ma più sottile e fritta. Come il pita gyros viene farcita, ma a differenza della ricetta greca prevalentemente a base di carne di maiale, a Bova si riempie con salumi, formaggi, sottoli della tradizione, ma anche con una farcia più succulenta del solito, tipo parmigiana di melanzane.  La lestopitta di Bova è stata reinterpretata anche in chiave gourmet da alcuni chef.

Qui c’è la cucina generosa in cui ritrovare, per esempio, anche la carne di capra. Ma, come è nella cultura aspromontana, la produzione dei formaggi riserva dei taglieri straordinari. Con un tipo, in particolare, che si prepara soprattutto nel periodo pasquale: il Musulupu, tradotto, “boccone del lupo”.  Si tratta di un formaggio fresco di capra che porta in sé una tradizione secolare legata alla cultura greco-albanese. Ha consistenza morbida, un bel colore avorio e il gusto dolce del latte appena munto, e deve essere consumato fresco.

C’è però anche la bellezza della formatura del Musulupu che viene modellato in stampi di legno, detti musulupare, spesso intagliati a mano dagli stessi pastori. Questi stampi, realizzati in gelso nero o pero selvatico, sono vere e proprie opere d’arte. Alcuni raffigurano simboli antropomorfi, come coppe emisferiche che richiamano le mammelle femminili o figure, sempre femminili, in miniatura, mentre altri riportano motivi decorativi di fantasia o simboli religiosi della tradizione ortodossa. Le pendici orientali dell’Aspromonte, dove storicamente si rifugiarono i monaci greci in fuga, hanno molto probabilmente contribuito a mantenere intatte queste tecniche e l’uso di oggetti legati alla produzione del formaggio.

A Bova è necessario fermarsi per qualche giorno almeno. E poi tornare ancora. C’è una bellezza che merita attenzione, che dev’essere respirata, ascoltata, perché si svela un po’ alla volta. Lo comprese nel 1847 anche Edward Lear, quando percorse le terre del Regno delle Due Sicilie, e qui si fermò per raccontarla nel suo diario che ancora si legge.

di Daniela Malatacca (info@meravigliedicalabria.it)

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