Natale in Calabria dolce come il miele

Natale, voce del verbo “ammelare”. Non la trovi sul dizionario ma è una parola del nostro vocabolario che viene rispolverata ogni anno per le feste. Ed è una parola dolcissima. Se la tradizione natalizia avesse un profumo sarebbe certamente quello di fritto; se poi avesse pure un sapore, “giù da noi” sarebbe di miele, così amato e consumato da farsi verbo e protagonista della tavola di dicembre. Non è un caso che tanti dolci siano proprio al miele e i dati parlano chiaro: nel 2021 nella graduatoria per numero di alveari, la Calabria si posiziona al quarto posto in Italia con 1.837 apicoltori e 131.149 alveari e al terzo posto per produzione con 1.182 tonnellate di miele di cui 92% commercializzato. Cosa significa? Che le api calabresi hanno una marcia in più grazie ad un habitat incontaminato e una vegetazione ricchissima. Così, le arnie sospese tra campi e boschi si fanno sentinelle del paesaggio e contribuiscono alla biodiversità e alla sostenibilità ambientale.

Fritti e “ammelati”
Se dico miele penso a vasetti da tenere in dispensa un po’ appiccicosi, perché finisce sempre che qualche goccia straborda e resta attaccata al vetro e sulle dita. Penso pure alle cucchiaiate di miele da mettere nel latte caldo la sera prima di andare a dormire quando hai mal di gola (il miele è ricco di antiossidanti, enzimi, sostanze nutritive ed ha proprietà antibatteriche e antinfiammatorie). Ma se dico miele, penso soprattutto al tavolo dei dolci di Natale: uno specchio di nettare dorato. Da Nord a Sud della Calabria è un vero viaggio sensoriale e artigianale fatto di impasti, spezie, zuccherini colorati e padelle colme di olio di semi. Perché a Natale in fritto we trust e anche per molti dolci l’epilogo è lo stesso, ovvero: siamo fritti! Come i turdilli (o turdiddri o crustuli, nelle varie province la stessa ricetta ha un nome diverso), una sorta di gnocco rigato a base di acqua, farina, zucchero e vermouth (c’è chi aggiunge un uovo e pure la cannella) che ricorda un po’ lo struffolo napoletano. Il risultato è un bocconcino morbido e allo stesso tempo fragrante che, dopo la frittura, finisce dritto nel miele riscaldato a fuoco basso perché diventi più liquido. È qui che si compie la magia: l’ammelatura. I fritti vengono ricoperti da dolcissime gocce d’oro fino a completo assorbimento. La ricetta originale prevede il miele di fichi, fiore all’occhiello della nostra tradizione gastronomica.


Melassa di fichi coi fiocchi
Si chiama miele ma, in realtà, non ha nulla a che fare con le api. Sarebbe più corretto, infatti, chiamarlo cotto di fichi o melassa ed è una meraviglia che si realizza facendo bollire i fichi in poca acqua fino ad ottenere una densità simile al miele. La melassa è fatta esclusivamente con il fico dottato (quello di Cosenza è DOP), da noi il re indiscusso dell’estate. Torroni, mandorlate, mostaccioli e non solo: il miele di fichi sdogana pure la pasticceria e finisce in mezzo a taglieri di formaggi e accanto a tagliate di carne. E poi è la dolce metà delle nostre notti in bianco. Forse non lo sai ma in Calabria già anticamente i contadini avevano l’abitudine, in occasione delle prime nevicate, di preparare una sorta di granita fatta di neve fresca e melassa di fichi. Si chiama “scirubetta” ed è davvero un dolce coi fiocchi.
Pitta ‘mpigliata the Queen
Con i turdilli fanno il paio le scalille, molto simili nella fattura ma dalla forma tipica a scaletta intrecciata, appunto. Le scalille si ammelano oppure vengono ricoperte di cioccolato o glassa, de gustibus, e sarà l’aria di Natale, sarà che la copertura conserva, fatto sta che hanno il potere di mantenersi morbide per lunghissimo tempo. E poi c’è la regina di San Giovanni in Fiore (CS): la pitta ‘mpigliata (o pitta ‘nchiusa). Il nome deriva dall’ebraico “pita”, che significa schiacciata, ed è una sorta di sfoglia di grano duro profumatissima (si impasta con vino bianco dolce, cannella e chiodi di garofano) ripiena di noci, mandorle, pinoli, uvetta, fichi secchi e ricoperta, ça va sans dire, di miele. Si prepara in diversi formati: grande a mo’ di pizza, piccolina come se fosse una rosellina o allungata alla stregua di un torrone. La nostra pitta nasce come dolce natalizio ma, nel tempo, si è fatta così identitaria del territorio da destagionalizzarsi. Allora: pitta ‘mpigliata tutto l’anno ma immancabile in mezzo ai compagni per le feste. Stessa sorte per i mostaccioli, biscotti (tipo cantucci più morbidi) fatti con miele, mandorle, noci e spezie: un’infornata ed è Natale per 365 giorni.


Una Tradizione dolcissima
Ce n’è per tutti i gusti, insomma, e ogni morso è un happy hour per il palato. Ma non è solo un fatto di zuccheri e calorie: dentro ogni impasto c’è una storia e una tradizione di famiglia (“nonna li faceva senza uova”, “la mia ci metteva il cioccolato”). Fare i dolci a Natale significa celebrare la cultura locale e, soprattutto, condividere. Chi ti regala un turdillo, in fondo, ti regala un po’ del suo calore: inestimabile e da sciogliere col miele. A fuoco lento.
Rachele Grandinetti