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Piccole storie quasi perdute: i “cuzzurunnar” di Trebisacce

Piccole storie quasi perdute: i “cuzzurunnar” di Trebisacce

La lavorazione dell’argilla rappresenta una delle tradizioni più antiche e radicate della Calabria. Conosciuta per la sua capacità di trasformare una materia semplice in oggetti di grande utilità e bellezza, l’arte dei mastri critari, figulari, pignatari e vasai è diffusa in diverse località della provincia di Cosenza, tra cui Bisignano, Rogliano, Cropalati, Mendicino, Altomonte, Rossano, Cassano Ionio, Bocchigliero, Saracena e Calopezzati.

In questo panorama di saperi e abilità, c’era anche Trebisacce dove la dedizione di generazioni di artigiani ha trasformato la lavorazione dell’argilla in un simbolo di identità culturale. La storia dei figuli trebisaccesi sembra che porti un solo nome, quello della famiglia Laschera che, per oltre due secoli, ha rappresentato quest’arte, dando vita a una lunga linea di artigiani ancora oggi conosciuti come i cuzzurunnar (vasai, in dialetto locale).

La loro storia inizia nei primi anni dell’800 con Giuseppe Laschera, capostipite e mastro vasaio, che avviò l’attività in un tempo in cui molto poco si pensava all’oggetto in termini di bellezza artistica; semmai si trattava di manufatti utili alla vita quotidiana delle famiglie come “i gummighe” (gli orci), “i pignate” (le pignate) per cuocere i legumi al fuoco, “i salaturi” per le conserve,“i ciarre”, le anfore grandi nelle quali si conservava l’olio, tutte le stoviglie, all’epoca, necessarie in cucina. Negli anni a venire furono i figli Vincenzo, Cataldo e Nicola, che proseguirono l’attività del padre.

Uno dei tre, Vincenzo – siamo agli inizi del ‘900 – emigrò in Argentina, come tanti a quell’epoca, per cercare miglior fortuna.  Al suo ritorno a Trebisacce, grazie alla sicurezza economica che era derivata dalla sua permanenza oltreoceano, riprese l’attività di figulo insieme ai suoi fratelli. Nella loro semplicità, sapevano che era necessario mantenere viva una tradizione, un mestiere – nel senso più nobile del termine – fondamentale nella cultura locale. Fu proprio Vincenzo, infatti, che si dedicò con passione all’insegnamento del mestiere ai suoi figli e nipoti, assicurandosi che l’arte figula non andasse perduta. Tra i suoi allievi più bravi e cari, Giuseppe, figlio di Cataldo, e Nicola, nipote del fratello Nicola. Tutti li ricordano ancora per la loro abilità di tornianti. Non solo. La loro bravura infatti non riguardava solo l’abilità sul pedale o manuale, ma anche sapere individuare i materiali migliori da lavorare per ottenere un prodotto che potesse essere sottoposto, senza alcun rischio di rottura, ad alte o basse temperature. Giuseppe, in particolare, era davvero ammirato maestro al tornio a pedali, mentre Nicola continuò a sua volta a trasmettere a generazioni di ragazzi quell’arte, insegnandola nelle scuole e nei campi regionali degli scout.

Il processo di lavorazione dell’argilla a Trebisacce richiedeva impegno, fatica, lavorare di piccone nella cava. Per raggiungerla si attraversavano i Giardini, un paradiso che profumava (e profuma ancora) di zagare e arance. Come fosse una vendemmia quotidiana, la creta veniva poi lavorata a piedi nudi in larghi contenitori. Per avere l’impasto migliore si utilizzava acqua di mare e poi, una volta modellata, veniva cotta nei forni alimentati a legna.

Della famiglia Laschera si racconta spesso di Peppino, un altro degli eredi dell’antica famiglia (da nonni, o da zii a nipoti, i nomi sembrano ripetersi all’infinito in una mappa abbastanza intricata). Ne parlano ancora con gli occhi un po’ lucidi in paese, perché fu lui quello che ebbe successo oltre i confini regionali. Così, si dice che a Milano si fermò davanti alla porta di un laboratorio dove un anziano maestro lavorava la creta al tornio. Questi lo vide così rapito che lo invitò a cimentarsi.

Peppino, senza dire all’artigiano che in realtà lui il mestiere ce l’aveva già, fece finta di mettersi alla prova: diede forma a un’anfora perfetta, grande, alta, fatta in un sol colpo, davanti agli occhi dell’anziano che lo osservava stupito, tanto da chiedergli di restare a lavorare in bottega. Peppino Laschera in quegli anni divenne molto ricercato anche da scuole e architetti, per i quali dai progetti su carta realizzava magnifici plastici in creta. Creava modelli per le lampade La Murrina e preparava allievi ad entrare all’Accademia di Brera. Peppino ha rappresentato l’apice della tradizione familiare e, per questo, ricordato come quello che ce l’aveva fatta.

Negli anni la tradizione figula di Trebisacce è mutata. Dopo la scomparsa dei tre fratelli Laschera l’attività è continuata con i discendenti e anche con bravi apprendisti. Tra questi, Domenico Massafra, in particolare, raccolse l’eredità dei Laschera, perfezionando la sua tecnica e diventando un maestro a sua volta. E poi un discendente di terza generazione nato in Argentina, Diego Rossi (figlio di Rosa Laschera, nipote di Vincenzo), ha preso a fare il mestiere degli antenati in modo istintivo, perché nessuno glielo ha insegnato. Lo fa a Córdoba, la sua città, e da qualche tempo la famiglia calabrese di Trebisacce lo ha ritrovato sui social. Si raccontano le storie di generazioni, e Diego dice di sentirsi felice di aver scoperto di essere uno dei cuzzurunnar, il soprannome che ha sempre identificato la sua famiglia di origine.

Il legame fra Trebisacce e l’antica arte dei vasai si percepisce ancora vivo, nonostante il rumore dei torni di legno a pedali si sia affievolito. Il desiderio di Vincenzo di tenere viva la tradizione non si è concretizzato del tutto, almeno secondo la sua idea. Se in altri luoghi si trovano ancora oggetti d’uso quotidiano in terracotta così come un tempo, è perché qualche artigiano ha trasformato quel mestiere in una piccola impresa, e per fortuna resiste. A Trebisacce ci sono oggi alcune piccole botteghe dove si creano ceramiche artistiche, si lavora l’argilla al tornio elettrico e a mano e, a differenza dei cocci antichi, le superfici sono belle colorate e lucide. Cambiano i tempi. E anche l’utilità delle cose.

Si ringraziano Vincenzo Romano e Cataldo Laschera per aver raccontato la storia della loro famiglia e concesso a Meraviglie di Calabria il prezioso materiale fotografico.

di Daniela Malatacca (info@meravigliedicalabria.it)

Foto panorama Trebisacce: Giuseppe Genise

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