Le Polëcënëllë di Alessandria del Carretto al Carnevale di Venezia

Una festa antica che riunisce la comunità di un paese, la folla che si affaccia in ogni via, fotografi e studiosi, antropologi che percorrono le storie più antiche, il chiasso di campanacci e tamburelli. E gli organetti con le zampogne, dei quali si sente l’eco tra le profonde valli e lungo la strada tortuosa, che anticipano l’arrivo ad Alessandria del Carretto, circondata dalla maestosità del versante orientale del Pollino. È qui che ogni anno, con un rituale di cultura antichissima, si ripete il rito del Carnevale. Un teatro all’aperto in cui si muovono le maschere delle Polëcënëllë bielle (maschere belle) e laiedë (brutte) simboli arcaici che mettono in scena la tensione tra opposti che caratterizza tutta la festa, in cui gestualità e significati sono connessi al ciclo della natura e della vita umana.



Quest’anno, la straordinaria tradizione alessandrina varcherà i confini regionali per raggiungere Venezia, città del Carnevale per eccellenza. Il 3 marzo, infatti, in piazza San Marco, le Polëcënëllë di Alessandria del Carretto saranno al “Carnevale delle Tradizioni”, l’evento organizzato dall’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia (Unpli), che riunisce le maschere antropologiche più rappresentative del Paese. Saranno le uniche maschere calabresi presenti, a testimonianza del loro valore culturale. All’evento ci sarà l’associazione “I Polëcënëllë “, guidata da Antonio Arvia, che lavora in collaborazione con la Proloco Borgo Autentico di Alessandria del Carretto, presieduta da Donatella Iacobelli e, ovviamente, la rappresentanza dell’amministrazione locale guidata dal sindaco Domenico Vuodo.



Il carnevale di Alessandria del Carretto è certamente uno dei più antichi di tutto il Sud Italia, tanto è vero che in questa sorta di spettacolo teatrale si ravvisano elementi di quello greco, ma nel clima di gioia che attende l’arrivo della primavera. Non è il carnevale dei carri allegorici o delle sfilate classiche, ma solo quello dei travestimenti della tradizione che richiamano il contrasto di sacro e profano con un gioco di maschere magiche di cui non è esattamente chiara l’origine.




I Polëcënëllë bielle (la maschera dei belli) partecipano al rito della vestizione collettiva. Indossano abiti bianchi e si ornano di scialli colorati, foulard di seta e coccarde. Portano in testa uno splendido copricapo confezionato con piume leggere, nastri di raso e fiori. E poi uno specchio al centro, legato alle infinite simbologie che ne fanno un oggetto magico e misterioso. Una maschera lignea, bianca con le gote dipinte di rosso, nasconde i volti, e dietro la schiena si legano un campanaccio, il cui suono annuncia il passaggio per le strade.


Ogni mascherato ha con sé u scruiazzo, un bastone di legno finemente intarsiato, rifinito con due pompon di lana colorata all’estremità. In gruppo vanno con lo sposo a prendere ‘a zita, la sposa vestita con un abito da cerimonia. La coppia viene poi allegramente accompagnata dai suonatori tra i vicoli, e sulle tarantelle ballano con grazia. Come fosse una specie di syrtos greca, la danza rappresenta la giovinezza, l’eleganza, la rinascita.



Oltre al corteo dei Polëcenellë bielle, c’è quello dei Polëcenellë laiedë, ma sulla scena non si incontrano mai. Sono sempre gli opposti, la stagione dell’inverno che si spegne e la primavera che è vita, morte e rinascita. Il costume dei brutti è esattamente il contrario degli altri. Racconta il disordine, è lacerato e scuro, e le maschere sul viso sono approssimative. Il loro passaggio è caos: nelle movenze, nei passi di danza scomposti.

C’è poi la forza incontenibile della natura, nella parte più oscura e paurosa. È l’Ursë, il travestimento di un uomo in animale con orridi fattezze. Sul capo ha grandi corna e il viso è tinto di scuro, veste di pelli e ha rumorosi campanacci legati alla cinta. Tenta di sfuggire alla cattura, ma gli uomini finiscono per domarlo, e vincono così sui mostri della natura che fanno paura.



La rappresentazione della Quaresima con la Coremmë, sancisce la fine del periodo carnevalesco. È rappresentata da un’anziana donna zoppa, vestita a lutto e con la faccia tinta di fuliggine, e porta con sé un fuso per colpire chi le passa vicino.
Quando il giorno è sul finire, ognuno toglie la propria maschera e ci si ritrova nelle case. Ovunque c’è una serenata da cantare, un piatto di cose buone da consumare, un vino bello carico da bere e, ancora, un ballo per continuare a scaldarsi.
di Daniela Malatacca (info@meravigliedicalabria.it)