L’assedio di 217 anni fa che immortalò Amantea

di Roberto De Santo
Il 7 di febbraio di duecentodiciassette anni addietro si poneva fine ad uno dei capitoli più gloriosi della resistenza borbonica ai francesi. Un’impresa titanica combattuta ad armi impari che ha visto un «pugno di miseri calabresi», come ebbe a dire Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald (generale di artiglieria che partecipò all’assedio) schierarsi con le truppe più agguerrite dell’epoca: l’esercito napoleonico di invasione. Lo scenario di questa battaglia epica durata – a fasi alterne – tra il marzo del 1806 e il febbraio del 1807 è stata Amantea con la sua fortezza.
L’ultimo assalto – quello più duro – alla rocca fortificata della cittadina del Tirreno cosentino durò una quarantina di giorni, dal 29 dicembre 1806 al 7 febbraio 1807. Giorno in cui la piazza fu consegnata, dopo la firma dell’armistizio il giorno prima, alle truppe napoleoniche.
Gli assalti estivi alla fortezza respinti

Ma la storia di questa battaglia ha decisamente i tratti dell’impresa, visto che – nonostante fossero in netta minoranza – gli amanteani fedeli ai borboni riuscirono a respingere l’assalto dei francesi più volte.
In particolare nell’agosto del 1806 tre colonne francesi inviate dal maresciallo Andrea Massena e guidate dai generali Verdier, Reynier e Julien Auguste Joseph Mermet marciarono su Amantea e la posero d’assedio. Un attacco che però fu respinto tanto da far ripiegare le truppe napoleoniche a Cosenza. Già il 5 luglio di quell’anno il generale Jean Antoine Verdier aveva tentato la conquista della cittadina senza però centrare l’obiettivo. Anche in quel caso i suoi uomini dovettero ripiegare.
Un copione che si ripetette anche Il 27 settembre 1806 quando nuovamente il generale Verdier arrivò alle porte della città con due reggimenti di fanteria, due cannoni e alcune squadre della guardia civica. Tentò l’assalto senza riuscirci. Gli amanteani riuscirono anche in quel caso a respingerli.
I nuovi attacchi ad Amantea

Consci della necessità strategica di conquistare Amantea che con il suo porto garantiva l’arrivo di rinforzi borbonici, i francesi non si arresero all’idea. Così il 3 dicembre 1806 i francesi tornarono in forze da Cosenza verso Amantea.
Stando alle ricostruzioni storiche, avevano con se cinquemila soldati. Il 5 dicembre tentarono il primo assalto vero e proprio della città. Ma gli assedianti furono respinti e subirono pesanti perdite: 40 morti e numerosi feriti.
Tre giorni dopo l’esercito francese tentò di penetrare nella città dalla rampa di San Pantaleo che conduce alla Chiesa Madre. Fu una popolana locale Elisabetta Noto – che in suo onore in questa zona è stata dedicata la strada – a lanciare l’allarme e a far fallire l’assalto. Anche qui con pesanti vittime: 60 morti e decine di feriti.
Perdite che spinsero il generale Verdier ad ordinare nuovamente la ritirata verso Cosenza.
L’ultimo assedio

Passarono pochi giorni e nel 29 dicembre 1806 i francesi si ripresentarono sotto le mura di Amantea. Forti di un ancor più potente contingente: quattro battaglioni di circa 2400 uomini, una compagnia di cannonieri, una compagnia di zappatori del Genio, un reggimento corso di 300 uomini, 800 volteggiatori e circa 2000 guardie civiche. Un assalto decisivo, secondo i piani del generale francese, che anche in questo caso non fu facile portare a termine. Amantea venne completamente circondata e colpita pesantemente con fuoco di artiglieria che provocarono ingenti danni alle possenti mura difensive della città. L’ultimo episodio chiave che portò alla resa della popolazione – ormai allo stremo per la fame e le pesanti perdite – avvenne Verso il 5 febbraio del 1807 quando alle ore 14 fu fatta brillare una mina da 1.900 libbre di polvere da sparo sotto le mura dalla parte di Paraporto, Un’esplosione che fece crollare l’intero bastione permettendo alle truppe francesi di penetrare. Era l’inizio della fine. Dopo mesi di assedi respinti e tentativi vani dei francesi di conquistare Amantea, la città capitolò. Ma con l’onore delle armi. Il comandante della piazza di Amantea Ridolfo Mirabelli firmò la resa in una casa colonica in contrada Rota.
A memoria di quell’episodio sulla facciata del casolare fu collocata un’epigrafe che è possibile ancora osservare. I segni di quella epica battaglia inoltre restano immutati nel tempo scrutando i ruderi della fortezza che dà il nome alla città: dall’arabo Al-Mantiah (“la rocca”)
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